Tutti parlano della scuola (senza conoscerla), ma nessuno la ascolta

di Ilaria Venturi, la Repubblica

Valentina Petri e il suo nuovo libro “Non ti sento”: noi insegnanti considerati vuoto a perdere. È appena uscito nelle librerie il romanzo della docente scrittrice edito da Rizzoli: “Racconto il periodo del Covid, quando abbiamo fatto lezione dai tinelli di casa, e che ora facciamo finta che non appartenga più alle nostre vite, dovevo farlo perché sentivo l’urgenza e la necessità”

 

“Non ti sento”, una delle frasi ricorrenti per chi ha fatto lezione durante il Covid, è il nuovo libro di Valentina Petri, insegnante al professionale Lombardi di Vercelli, uscito per Rizzoli e già nelle librerie. In modo ironico, nel suo stile, la prof di “Portami il diario”narra cosa è accaduto nelle case di alunni e professori con le lezioni a distanza durante la pandemia. «Dovevo raccontarlo quel “periodo là” che ora facciamo finta che non appartenga più alle nostre vite, dovevo farlo perché sentivo l’urgenza e la necessità».

Ma la scuola, professoressa, non ha già archiviato i mesi terribili del Covid?

«Abbiamo parlato tanto di Dad e nuove tecnologie, ma noi continuiamo ad avere a che fare coi ragazzi che hanno vissuto quel momento».

E stanno ancora male, ci sono scuole costrette a chiamare l’ambulanza due volte al mese per attacchi di panico tra i banchi.

«È che si devono continuamente confrontare con modelli e standard estetici inarrivabili, in una società imbevuta di ansia da prestazione. Il mio osservatorio è un istituto professionale, dove il disagio arriva tutto insieme e dipende molto dalle condizioni sociali e familiari di partenza, nei licei pesano di più le aspettative delle famiglie. Non so se viene tutto dal Covid o se è stato la grande oliva in questo Martini».

Nel libro non nomina mai la parola Covid o pandemia, perché?

«Mi interessava fissare quel momento raccontando la scuola nei luoghi in cui c’è stata, dai balconi alle cucine, e nelle storie di insegnanti e studenti come fosse stata una corsa in cui hai buttato fuori le tossine. Serve ad affrontare un trauma non superato. Cosa è rimasto? La relazione educativa, il mettersi in gioco: questo ho imparato, questo ci ha cambiato, almeno molti di noi».

Racconta di un giovane neoassunto che comincia le lezioni in Dad senza mai aver visto i volti dei suoi allievi: cosa non va oggi nel reclutamento dei docenti?

«Rimane una fabbrica del precariato dove trovi giovani motivatissimi e chi insegna per ripiego. Chi vuole insegnare, e di sicuro nessuno lo fa per soldi, deve volerlo, ma deve anche sapere cosa lo aspetta. Lo scopri in classe, per questo i tirocini sono importantissimi. Se ti piace stare in classe allora questo è già la metà dell’essere insegnante e diventi migliore se hai uno staff di bravi colleghi intorno come è accaduto a me. In tre mesi di Dad è emerso quanto ci sia in rete, tutorial e lezioni, con influencer che spiegano anche meglio di me, ti viene da chiedere: ma noi a cosa serviamo?».

A cosa?

«Noi ci siamo, siamo i loro unici adulti di riferimento che stanno lì, ogni giorno. Per tirare fuori il meglio da ogni ragazzo, per trasmettere conoscenze con spirito critico, serviamo a mediare i contenuti, placare ansie, sedare risse e soprattutto serviamo a costringerli a stare insieme. Il nostro obiettivo non è formare persone con competenze da immettere subito nel mercato del lavoro, ci prendiamo il lusso di insegnare l’inutile perché anche le parafrasi del sonetto di Foscolo servono a capire le domande del passato. Se ti devo insegnare solo a pigiare un bottone di un macchinario ti tolgo la possibilità di capire il mondo e te stesso».

“Non ti sento”, il titolo, è anche un modo per dire che la società e la politica non ascolta la scuola?

«Il mio è un libro sull’incomunicabilità, quella che abbiamo vissuto nel 2020 e che oggi viviamo sulla nostra pelle perché la scuola è molto raccontata da chi è pronto a spiegarci come dovrebbe essere senza sapere come è. Ci sentono poco».

È il caso di Pioltello e della stretta annunciata da Valditara?

«Con il Ramadan ci abbiamo sempre fatto i conti, senza polemiche. Così come ogni istituto fa i conti con la realtà del proprio territorio. Quando lavoravo in una scuola a Santià il Carnevale era così importante che in quei giorni non avevi quasi nessuno in classe. L’autonomia delle scuole non va toccata e non ha nemmeno senso fissare tetti per gli stranieri in classe. Dire straniero non vuole dire più niente, perché stiamo parlando per la maggior parte di ragazzi nati e cresciuti qui. Sono cose che la politica non dice, preferisce al contrario slogan di pancia da campagna elettorale. Se il problema è la conoscenza della lingua allora si facciano classi più piccole e si diano più risorse del pacchetto di 10 ore di italiano per chi arriva da altri Paesi. Investire in istruzione, non c’è altro da dire. Invece siamo ancora considerati vuoto a perdere».

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