Abilitazione modello-Valditara, quei corsi (costosi) tenuti da chi non è mai entrato in un’aula

di Mattia Fasana, il Sussidiario

La nuova modalità di abilitazione dei docenti introdotta da Valditara sta seminando lo scontento tra i giovani prof della scuola

 

Un editoriale del Domani del 17 aprile ha iniziato a mettere luce sulla situazione, un po’ paradossale e poco dignitosa, di tanti insegnanti in attesa di abilitazione. La questione, a mio modo di vedere, meriterebbe ben più rilievo di quanta ne sta ricevendo, se è vero che il futuro di un Paese passa dalla formazione delle nuove generazioni e, quindi, dalla considerazione di chi quelle generazioni dovrebbe formarle.

Provo a descrivere sommariamente la situazione di molte persone che, oggi, stanno insegnando nella scuola italiana, statale o paritaria che sia. L’ultima modalità per ottenere l’abilitazione all’insegnamento risale al 2014 (10 anni fa), anno dell’ultimo TFA (Tirocinio formativo attivo). Chi ha iniziato a insegnare da settembre di quell’anno non ha più avuto modo di abilitarsi e poter avere un posto di ruolo (in una scuola statale o paritaria), eccetto il concorso bandito nel 2020 dal ministro Azzolina, che permetteva di ottenere allo stesso tempo l’abilitazione e l’immissione in ruolo. Con due particolari: per accedere al concorso era necessario avere 24 CFU in discipline antropo-psico-pedagogiche (spesso ottenuti in università telematiche al costo, stabilito dal ministero, di 500 euro); il concorso, a causa delle bislacche modalità di svolgimento, è stato superato da circa il 10% dei candidati.

Conseguenza: migliaia di insegnanti continuano a insegnare, in scuole statali o paritarie, in maniera precaria e senza sapere con certezza in che modo potersi stabilizzare, con grave danno alla continuità didattica, ma anche alla dignità di queste persone.

A questa situazione il ministro Valditara ha detto di aver posto rimedio, bandendo “finalmente” una nuova modalità di abilitazione. Chi ha già almeno tre anni di servizio in una scuola (paritaria o statale) dovrà accedere a un percorso di 30 CFU (su metodologie didattiche e didattica della disciplina) erogato dalle università (ancora prevalentemente telematiche), alla fine del quale svolgerà un esame che gli rilascerà l’abilitazione. Costo: 2mila euro. A cui aggiungere i 500 euro già pagati da gran parte degli interessati per i precedenti 24 CFU che nel frattempo non servono più. Chi invece non dovesse avere gli anni di servizio e i 24 CFU dovrà accedere a un percorso di 60 CFU, al costo di 2.500 euro.

Possono esserci, poi, persone che sono abilitate a una classe di concorso e vorrebbero abilitarsi anche in un’altra: anche costoro devono accedere al percorso dei 30 CFU, pagare i 2mila euro e ottenere la nuova abilitazione.

Giunti a questo punto, però, la domanda urgente è: perché? Perché una persona che lavora a tempo pieno da dieci, cinque, o che ha appena iniziato a lavorare dopo aver svolto un percorso universitario, dopo aver pagato 500 euro per “ottenere” nuove competenze psico-pedagogiche (con 24 CFU in un’università telematica?) ora deve pagare altri 2mila euro (sempre a un’università telematica) e seguire obbligatoriamente tutti i pomeriggi sei ore di lezione di corsi tenuti da persone che non sono mai entrate in un’aula scolastica?

Perché il giovane insegnante (che dopo cinque o dieci anni potrà comunque dire di aver maturato una qualche professionalità) dovrà togliere tempo ed energie al proprio lavoro, che richiede tempo di preparazione, tempo per la correzione dei compiti e delle verifiche, tempo per confrontarsi con i colleghi più anziani e con i colleghi del consiglio di classe? Perché un insegnante che svolge il proprio lavoro con passione e dedizione deve accettare di pagare per ottenere un titolo?In quale professione questa cosa è accettata senza che nessuno dica niente? Perché l’insegnante non può essere riconosciuto tale da percorsi simili alle altre professioni (medici, avvocati, etc.), ma deve pagare di tasca propria per poter accedere a una professione, che non avrà alcun riconoscimento, se non quello missionario?
Se è questo il piano del ministro per rilanciare la professione insegnante e rispondere all’emergenza educativa, stiamo freschi. Ma si sa, del resto, che in Italia l’insegnante non lavora, quindi è giusto che paghi. Chapeau, signor ministro!

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