Riforma della scuola: scontro al ministero, si dimette il consigliere di Bianchi
Ancor prima dello sciopero del 30 maggio, le nuove regole per la professione di insegnante e la formazione continua hanno creato scontento. Il ministro: situazione delicata
C’è maretta al ministero dell’Istruzione. Da quando lo scorso aprile è stata presentata in consiglio dei ministri la riforma dell’accesso alla professione per gli insegnanti delle scuole medie e superiori insieme alle nuove regole per la formazione in servizio dei docenti già assunti la situazione è diventata incandescente. «E’ un momento delicato», ammette il ministro Patrizio Bianchi, che è tirato in mezzo da tutti e che si sente ripetere che, l’ultima riforma tentata, la Buona Scuola, si è infranta proprio sulla questione degli insegnanti, del tentativo un po’ sommario di introdurre formazione e carriera. E’ forse per questo che Bianchi spiega che a richiedere la riforma questa volta è direttamente «la Commissione europea», che la questione è scritta nel Pnrr.
Lo sciopero
Uno sciopero dei sindacati – quello del 30 maggio – era stato messo in conto. Ma la protesta contro l’ormai famoso decreto 36 – che è in discussione ora in Parlamento – ha riunito per la prima volta da quando c’è il governo Draghi tutte le sigle sindacali. Quello che Bianchi non aveva messo in conto però erano le dimissioni del suo consulente per i rapporti con i sindacati e per la gestione del contratto, il cui iter è stato appena avviato. Mario Ricciardi, emiliano anche lui, già presidente dell’Aran, a lungo collaboratore del Miur oltre che professore di relazioni industriali a Bologna, ha lasciato il suo incarico di braccio destro (a titolo gratuito) del ministro il giorno dopo il consiglio dei ministri che ha licenziato la bozza di riforma. Il lavoro, gestito dal capo di gabinetto di Bianchi Luigi Fiorentino e approvato d alla task force di Palazzo Chigi guidata da Giavazzi e Leonardi, non corrispondeva all’atto di indirizzo che aveva presentato lui stesso a inizio anno ai sindacati. Il punto del dissenso, come ha spiegato Ricciardi ai suoi interlocutori, è che la formazione e la carriera sono materie che in parte vanno regolate per legge e in parte rientrano nella materia contrattuale. E le regole del decreto – che ha avuto già diverse versioni prima di vedere la luce – non sono quelle su cui si era lavorato nei mesi scorsi. Bianchi ha difeso il lavoro del suo capo di gabinetto. Ricciardi se ne è andato.
Le regole
Per quanto riguarda l’accesso alla carriera, il decreto prevede un anno di formazione per conseguire 60 crediti universitari (oggi sono solo 24 e sono spesso una formalità) con un percorso che sarà guidato dalla scuola di alta formazione insieme alle Università. Per la formazione in servizio – che è il punto più innovativo e più contestato – il decreto prevede che sia volontaria e che il 40 per cento di chi completa i corsi con i voti migliori venga premiato con un bonus una tantum. Una versione precedente, che non ha passato il vaglio del ministero delle Finanze, prevedeva invece un’accelerazione degli scatti per chi completava un ciclo triennale di formazione con successo. Non solo, per far quadrare i conti, la riforma viene, almeno formalmente, finanziata con un taglio dell’organico dal 2026 giustificato dalla reale diminuzione del numero di studenti a causa del calo demografico. Una norma che aveva rischiato di far esplodere la situazione tanto è vero che per cercare di fermare le proteste Bianchi e Daniele Franco avevano scritto un irrituale comunicato congiunto in cui si impegnavano a far sì che tutti i risparmi in termini di riduzione del personale sarebbero stati reinvestiti nel mondo della scuola. Bianchi si difende elencando le assunzioni fatte da quando è ministro: «Abbiamo assunto 57.100 insegnanti nel 2021, quest’anno 63.000 e 70.000 entro il 2024. Questo governo sta facendo un numero di assunzioni mai fatte prima», ha detto a Torino a margine del Festival Internazionale dell’Economia martedì 31 maggio. Sul destino del decreto 36 Bianchi è convinto che non ci sia spazio per grandi modifiche in Parlamento e probabilmente sarà così. Ma, come ci hanno insegnato le ultime riforme, non è detto che una volta che siano legge poi diventino realtà: è ancora molto facile fermarle prima ancora che vengano applicate.