Maturità, un’altra studentessa veneta rifiuta l’esame orale

di Alice D’Este, Il Corriere del Veneto

Dopo la vicenda del padovano Gianmaria Favaretto, il bis di una liceale bellunese: «Questi prof pensano solo ai voti e non hanno capito le mie difficoltà personali. Troppe pressioni e nessuno è mai stato interessato a conoscermi veramente»

 

«Ho fatto un discorso ai professori, me l’ero preparato a lungo. Ho provato a descrivere nel dettaglio quello che secondo me a scuola non funziona». Maddalena Bianchi, 19 anni, studentessa del liceo scientifico Galilei di Belluno ha deciso, come già nei giorni scorsi un suo coetaneo padovano, di presentarsi alla maturità rifiutandosi però di fare il colloquio orale. Lo ha fatto per contestare i meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente.

Ci può ricostruire quei minuti?
«Sono entrata in aula, ho pescato la traccia. Poi ho aspettato che tutti i docenti della commissione si sedessero e ho iniziato il mio discorso. Ho provato a spiegare che, sebbene nella mia scuola la parte relativa alla preparazione sia stata ottima, ritengo che sia mancata totalmente l’attenzione alle persone. Il focus dei docenti è sempre stato sui voti. Io non ho mai avuto grossi problemi, ero una ragazza tranquilla, coi voti nella media. Ma non c’è mai stata la voglia di scoprire la “vera me” da parte dei docenti».

Che cosa avrebbero dovuto capire o scoprire?
«Ci sono difficoltà umane che non sono state viste. Il primo anno, ad esempio, sono arrivata al liceo non conoscendo nessuno. Entravo in classe disorientata, da parte dei compagni ho avuto un’ottima accoglienza. Avevo però anche provato a parlarne con i professori, ma nessuno ha mai dimostrato interesse. I docenti non guardano come sta lo studente davvero. Sono solo interessati al voto e questo crea molta competitività. Non voglio dire che i professori debbano diventare amici degli studenti, ovvio. Però la pressione per le verifiche, l’ansia, sono all’ordine del giorno e a loro pare non interessare».

 

In che senso?
«Tutti gli studenti in qualche modo vogliono essere i primi della classe. E anche i professori ti spronano in questa direzione».

Ma di fronte ad un voto negativo non si riesce a fare spallucce e a provare a far meglio la volta successiva?
«Non si riesce. Gli studenti generalmente ci tengono ad avere buoni voti per soddisfazione personale. Ed è sempre stato così anche per me».

Ha avuto pressioni in famiglia?
«No. I miei genitori sono sempre stati tranquilli sia con i voti buoni che con le insufficienze. Mi hanno sempre detto “non importa, recupererai”. Credo però che in generale la maggior parte della pressione venga dalla scuola. Ne parlavamo spesso nelle assemblee di classe. Con qualche docente siamo anche riusciti a confrontarci, con altri no. Alcuni hanno provato a cambiare, senza riuscirci».

Ci racconta qualche aneddoto?
«Nei primi due anni avevo una professoressa di latino che credo ce l’avesse un po’ con me. Per quanto mi sforzassi di studiare, continuavo a prendere insufficiente. Nelle versioni andavo male, poi studiavo tantissimo per le interrogazioni, per compensare, e prendevo comunque voti insufficienti. A fine anno ho preso il debito in latino. Mi ha promossa a settembre dicendo: “Ti do sei, così sei contenta”. Io penso che guardando il mio percorso avrebbe dovuto dire altro. Mi ero impegnata molto. Ma quanto una persona si impegna non conta. La stessa cosa mi è capitata in fisica in terza. C’era una professoressa con cui non riuscivamo a capirci. Mi è passata la voglia di studiare fisica».

Ma non ha detto di volersi iscrivere ad astronomia?
«Sì, confermo. Ho fatto i Tolc a Padova e Bologna, vediamo a che punto della classifica mi piazzerò. Studiavo da sola di pomeriggio, nelle mattine non ce la facevo proprio».

Lei denuncia una mancata comprensione a scuola, come guarda al mondo del lavoro?
«So bene che nel lavoro una comprensione di questo tipo non c’è. Va detto comunque che siamo ragazzi, iniziamo le superiori a 14 anni. Partire subito con questo concetto è dura. Già dalla terza in poi le cose cambiano. Ti fai un’idea del mondo del lavoro, con l’alternanza, con altre esperienze estive. Ma non credo che serva portare da subito la competitività nelle aule».

I tuoi sapevano della tua scelta di fare scena muta?
«No. Non ho detto nulla a nessuno. Poi subito dopo l’orale ho chiamato mia mamma. Lei mi ha detto che era molto contenta, che avevo fatto bene, che avevo fatto una cosa coraggiosa».

La commissione l’ha ascoltata?
«Sì, con interesse. Mi hanno detto che essendo dentro al sistema sanno che ci sono delle cose che non vanno bene ma che cambiarle è difficile. Per la prima volta credo di aver sentito il loro aspetto umano più profondo».

Crede che la sua generazione stia avviando una rivoluzione?
«Vedendo quanti ragazzi hanno fatto quello che ho fatto io in queste ore penso di sì. Ci siamo fatti un’idea delle criticità che ci sono nel mondo in cui viviamo. Proveremo a cambiarle. Come? Non lo so ancora. In Nord Europa a scuola si abbatte la competitività con nuovi sistemi di insegnamento. Potrebbe essere la strada giusta».

 

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