La scuola 4.0 nel quadro dell’Autonomia Differenziata

di Michele Lucivero, Roars

 

Introduzione

Al di là del divario sociale e culturale che l’attuazione dell’Autonomia Differenziata, una volta portata a termine, concretizzerebbe, secondo alcuni, tra regioni del nord e regioni del sud, non di secondaria importanza è la definitiva svendita della scuola pubblica al neoliberismo capitalisticoche essa adombra e che tenta di essere sistematicamente realizzata, quasi fosse una necessità ineluttabile, da tutti i governi che ormai si susseguono nel nostro Paese.

Se si presta attenzione al trend in atto da almeno una ventina d’anni in relazione ai processi che avvengono nella scuola pubblica, si può constatare che la particolare congiuntura delle direttive che discendono dalla disponibilità dei Fondi europei PNRR e delle indicazioni relative al Piano Scuola 4.0 con la declinazione dell’Autonomia Differenziata nello specifico ambito dell’istruzione permetterà, in assenza di mirati e necessari interventi statali in alcune regioni, la completa aggressione, già in corso da diversi anni, della scuola pubblica da parte di quella che potrebbe essere definita la quadruplice radice del principio di ragione capitalistica, cioè quella legata ai settori strategici militare, farmaceutico, energetico e digitale, su cui si regge il neoliberismo affaristico e guerrafondaio, ormai divenuto protagonista della governancemondiale.

Ci sono, a ben vedere, almeno quattro diverse questioni sul tavolo culturale, politico e sindacale in relazione al futuro della scuola, ognuna delle quali richiederebbe un approfondimento specifico, ma che, per questioni di sintesi, tenteremo di illustrare e di integrarle in un discorso unico.

In primo luogo, occorre precisare che il Piano Scuola 4.0 e il Piano Nazionale Scuola Digitale, prospettive che vanno ben oltre l’introduzione e l’uso della tecnologia digitale nelle scuole, sono il risultato di uno specifico orientamento culturale, fortemente radicato in un progetto politico ed economico, che tenta da un po’ di anni di deviare l’orizzonte educativo e didattico verso una nuova prospettiva. Si tratta dell’orizzonte culturale principalmente incentrato sulle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), senza, tuttavia, che queste ultime siano sistematicamente puntellate da adeguate riflessioni etiche e sociali, nelle scuole, sulle conseguenze che tali campi del sapere potrebbero avere sul futuro degli esseri viventi, implicazioni da sempre affidate, a vario titolo, alle discipline umanistiche. Accade, insomma, che nell’urgenza di finalizzare la scuola pubblica verso la mera ricerca di occupazione, con l’intento di essere utile al “mondo del lavoro”, si svenda, in realtà, tutto il sistema dell’istruzione, da cui non è esente anche l’università, in maniera irresponsabile al neoliberismo capitalistico.

In seconda battuta, la necessità di avviare questa transizione nella scuola, sempre restia, dicono tutti e tutte una volta arrivati in Viale Trastevere, al cambiamento, ha indotto ad architettare l’introduzione, non con una riforma, ma nelle more dell’applicazione del PNRR, delle figure di Orientatore e Tutor. Tali figure, già rifiutate in alcune scuole dai Consigli d’Istituto, deriverebbero, a ben vedere, dalle disposizioni concernenti i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) scritti già nel 2005 in relazione al sistema di Istruzione e Formazione Professionale regionale (IeFP) e che diventano ora il modello per il sistema di istruzione pubblico nazionale.

Appare, dunque, evidente, e veniamo al terzo punto, che un siffatto progetto, in cui si tende a digradare il modello scolastico nazionale pubblico verso forme regionalistiche, prendendo a modello la formazione professionale, in cui è forte la presenza dei privati e del terzo settore locale, necessiti di un adeguato quadro normativo, di tipo federalista e devolutivo, in grado di renderlo esecutivo. Ecco che giunge all’uopo la questione dell’Autonomia Differenziata, che da tempo governi di centro-destra e centro-sinistra cercano di avviare, facendo leva sulla revisione costituzionale del 2001 sul Titolo V della Costituzione e, in particolare, sul concetto di sussidiarietà, che proprio dal 2001 entra nel dettato costituzionale.

Se questo è il progetto complessivo che s’intende realizzare, si fa strada, allora, in maniera inevitabile, un quarto nodo politico da analizzare, vale a dire una Nuova Questione Meridionale, che forse è sempre la stessa, ma che richiederebbe di essere aggiornata dal punto di vista sociologico, al fine di avere uno sguardo prospettico più aderente alla realtà socio-politica attuale.

Il quadro normativo dell’Autonomia Differenziata: la Riforma del Titolo V

Dal dibattito critico sulla questione[1] emerge che l’attuazione dall’Autonomia Differenziata avrebbe almeno due conseguenze sul tessuto regionale, deleterie soprattutto per i territori del sud Italia, quelli per i quali i protagonisti del Risorgimento e dell’Unità d’Italia avevano optato, alla fine, per integrarli in un sistema statale unitario e non federale. Si tratta, infatti, di considerare, alla luce della storia, dello sviluppo economico, politico e istituzionale delle regioni del sud, l’ipotetica direzione che potrebbero prendere questi territori nel caso in cui la spinta verso l’autonomia dovesse diventare sempre più marcata. In un quadro caratterizzato da complessità geopolitica e interdipendenza globale con sviluppi locali, la nostra ipotesi di lavoro ha a che fare con l’urgenza di delineare scenari che mettano in evidenza una sorta di andamento “tendenziale” dello sviluppo delle società. Alla luce di questo metodo di lavoro, dunque, tutte le evidenze empiriche mostrano, da diversi anni, la tendenza politica ad una progressiva devolution di poteri istituzionali dallo Stato centrale verso la periferia. Nel solco di questa devoluzione si inserisce il progetto dell’Autonomia Differenziata, il quale configura, a nostro parere, un parallelo processo di “caduta tendenziale del saggio medio di democrazia e uguaglianza” all’interno dei nostri sistemi politici occidentali a tutto vantaggio di corporation e imprese pienamente inserite nel contesto neoliberista glocale oppure a vantaggio di istituzioni locali estrattive clientelari.

Appare chiaro, dunque, come le dinamiche glocali innescate dall’Autonomia Differenziata potrebbero accelerare, da un lato, la tendenza al localismo (1), con la definitiva stura alle istituzioni estrattive in seno alla nuova Questione meridionale, che permetterebbe la legittimazione del clientelismo retto su vincoli informali, ma che facilmente potrebbero diventare formali-regionali; e, dall’altra parte, esse rinforzino la tendenza al globalismo (2), innescata dal neoliberismo capitalistico che, in assenza di investimenti da parte degli enti territoriali, metta definitivamente mano, sguazzando nel disagio meridionale, al tessuto sociale ed economico locale, aggredendo il sud attraverso settori strategici per i suoi affari, quelli che rimandano alla quadruplice radice del principio di ragione capitalistica: settori digitale, militare, energetico e farmacologico.

Ora, il punto di partenza per comprendere gli sviluppi dell’Autonomia Differenziata, approvata con il DDL Calderoli il 2 febbraio 2023, deve necessariamente prendere le mosse dalla modifica del Titolo V della Costituzione con la Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che ha dato, in qualche modo, la possibilità ad alcune regioni di avviare una sorta di federalismo. La legge del 2001 consentiva, di fatto, alle regioni a statuto ordinario che ne avessero fatto richiesta di avocare a sé alcune funzioni spettanti allo Stato. Per salvaguardare l’unità dei servizi e delle prestazioni, tuttavia, il legislatore all’art. 117, comma 2, lettera m si è riservato un compito fondamentale, vale a dire la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

In realtà, concretamente, i suddetti livelli essenziali di prestazione, i cosiddetti LEP, non erano stati mai scritti, nonostante vi era stata la Legge n. 42/2009 a richiamarne l’urgenza e una legge relativa all’Istruzione e Formazione Professionale d.lgs. n. 226/2005 ad abbozzarli. Va da sé che è di fondamentale importanza la loro formulazione, anche e soprattutto per comprendere come possa essere bilanciato il potere concorrente sulla materia “istruzione e formazione” tra Stato, Regioni ed enti periferici. Il DDL Calderoli con l’art. 3 ha inteso imprimere un’accelerazione alla formulazione dei LEP e contestualmente ha nominato una “Cabina di regia” per l’attuazione, in cui figurano alcuni giuristi e costituzionalisti che avevano avviato il processo dell’Autonomia Differenziata già nel 2018-2019. Sarebbe, poi, stato affidato ad un Comitato, presieduto dall’amministrativista Sabino Cassese, il compito dell’individuazione dei LEP. Il Comitato avrebbe concluso i suoi lavori il 30 novembre, per cui entro il 31 dicembre la Cabina di regia avrebbe dovuto pronunciarsi in maniera definitiva sull’attuazione dei LEP.

Va rilevato che la definizione dei LEP, che secondo alcuni andava posta in relazione a livelli universali e non essenziali di prestazione, per non ricorrere ad un ragionamento al ribasso, è subordinata all’individuazione di “diritti sociali e civili” imprescindibili da parte dello Stato, che poi devono essere declinati dalle regioni anche nel sistema dell’Istruzione, così come accade già nel sistema integrato regionale della Formazione professionale. Per poter declinare i “diritti sociali e civili” nei vari contesti da parte dello Stato centrale, tuttavia, non si può non fare riferimento innanzitutto al dettato costituzionale, il quale si richiama nell’erogazione e nella fruizione di tali diritti tanto al principio di solidarietà quanto al principio di sussidiarietà, che pure entra nel 2001 nella nostra Costituzione, specificando che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Tale principio consente di tenere conto, per la fruizione dei diritti dei cittadini e delle cittadine, delle iniziative promosse da soggetti in prossimità, da corpi intermedi, da strutture di mediazione, vale a dire associazioni, enti e soggetti privati che intervengono per elevare i livelli di prestazioni, raggiungere quegli obiettivi ritenuti essenziali. In particolare, il principio di sussidiarietà ha una formulazione negativa e una positiva, nel senso che lo Stato deve astenersi se altri enti possono agire in prossimità (formulazione negativa), ma al tempo stesso lo Stato deve sostenerli, favorirli, anche economicamente (formulazione positiva). È evidente, dunque, che già in quest’ultima fattispecie rientra tutto ciò che fino ad oggi, ma con decorrenza dai primi anni 2000, ha comportato il finanziamento pubblico dell’istruzione privata, intesa come prima e pesante svendita della scuola pubblica.

Ora, l’assetto che pare prefigurare l’Autonomia Differenziata potrebbe essere definito un assetto a “geometria variabile”, in cui le potenzialità dipendono dall’attuazione dell’art. 117, cioè quello che stabilisce la Competenza esclusiva dello Stato su (a) norme generali sul tema dell’istruzione e (b) determinazione dei livelli essenziali di prestazione(LEP). Per farsi un’idea del suo sviluppo si potrebbe prendere in considerazione il Sistema Sanitario Nazionale, che è stato il primo ad essere regionalizzato e aperto alla libera concorrenza ben prima del 2001, cioè con Legge 502 del 1992. Tuttavia, per comprendere a fondo l’orizzonte entro il quale potrebbe essere inserita l’istruzione pubblica in un contesto normativo caratterizzato dall’Autonomia Differenziata, si potrebbe seguire ciò che scrive Roberto Vicini, ex dirigente scolastico nella Regione Lombardia, poi passato alla gestione della Formazione Professionale e autore di diversi articoli su il Sussidiario.net, strumento di comunicazione della Fondazione per la sussidiarietà, quella che in Lombardia ha sostenuto l’ingresso del privato nella gestione dei servizi. Nel ribadire l’importanza della definizione dei LEP, Vicini[2] sostiene che le istituzioni nazionali autonomizzatesi debbano collaborare sul proprio territorio con «Soggetti e Agenzie che svolgono una funzione educativa e formativa». E, non a caso, il modello che egli prende come riferimento è, appunto, la IeFP regionale, alla quale concorrono le aziende del territorio. Solo a quel punto la Formazione professionalesarebbe considerata alla stregua dell’Istruzione statale, non la sua sorella minore: «In tale cornice gli Enti formativi accreditati che erogano l’offerta di IeFP, quale segmento strutturale del sistema di offerta secondaria di secondo ciclo, potranno finalmente essere posti nelle condizioni di una parità effettiva, non solo di principio, con le Istituzioni scolastiche» (p. 31).

In linea di principio, però, va rilevato che se sul territorio nazionale si partisse da livelli socio-economici e culturali più o meno bilanciati, allora la cosa potrebbe funzionare, nel senso che realmente il modello della IeFP potrebbe essere assunto dall’istruzione liceale e tecnica. Tuttavia, nella realtà effettuale delle condizioni del nostro Paese, si pongono almeno due questioni rilevanti:

  1. Chi è veramente disposto ad investire per una formazione liceale i cui risultati, a differenza della formazione professionale, non si vedono subito, ma richiedono un lungo e aleatorio passaggio alla formazione universitaria, che, peraltro, perlopiù non conserva la medesima popolazione studentesca sul territorio regionale e produce emorragie di cervelli verso il nord?
  2. Come si mette per quelle regioni che non hanno sviluppato, per motivi storici, sociologici, non da ultimo come conseguenza della vexata“Questione meridionale” e come conseguenza dell’esistenza di “istituzioni estrattive”, un tessuto economico imprenditoriale ed artigianale locale in grado di sostenere la formazione e l’istruzione?

La logica di Vicini, che è la stessa perseguita dal ministro Valditara oggi e da Patrizio Bianchi ieri, è tesa a smantellare la scuola pubblica, quella che deve formare ai sapere critici, alla cittadinanza attraverso la cultura, la storia, la filosofia, la letteratura, facendo penetrare, invece, le aziende, le industrie, la formazione finalizzata alla produzione. Afferma, infatti, Vicini: «Un altro LEP dovrebbe riguardare la natura dell’offerta garantita dalle Istituzioni scolastiche e formative, che non può più corrispondere (e ridursi) alla trasmissione/insegnamento dei c.d. – per intenderci – “saperi disciplinari”, ma aprirsi alle dimensione dell’apprendimento che si attua con diverse modalità, anche esperienziali, pratici e in contesti lavorativi, culturali, sociali, ecc. Il che rimanda alla previsione sulla necessità/possibilità di personalizzare i curricoli e di procedere ad una loro contestualizzazione territoriale» (p. 34).

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E così, l’introduzione degli interventi di orientamento e tutorato per gli IeFP, già previsti nei LEP scritti al capo III del d. Lgs n. 226/2005[3], vengono estesi, dopo i PCTO, che rappresentano la vecchia Alternanza Scuola-Lavoro dei professionali, anche agli Istituti Tecnici e ai Licei, rendendo piuttosto evidente la direzione assunta nel tentativo di mortificare la cultura, soprattutto la formazione liceale improduttiva e universitaria, sostenendo, invece, la manodopera per un establishment elitario già consolidato, che si forma nelle scuole private e nelle scuole di formazione aziendale. Del resto, che le imprese abbiano bisogno solo di forza lavoro, tra l’altro sfruttandola in regime di precarietà e flessibilità, è confermato dalla riforma che Valditara ha posto in essere per gli istituti professionali, la quale punta esclusivamente all’impoverimento dell’offerta formativa.

Senza puntare il dito contro un governo piuttosto che un altro, consapevoli del fatto che la logica che guida il centrosinistra e il centrodestra sia la medesima, pervasa dall’ideologia neoliberista, è chiaro che negli ultimi decenni vi sia in atto un progetto teso a smantellare l’istruzione, la formazione umana, politica e sociale e ad avviare un becero addestramento legato ai bisogni contingenti delle imprese, procedendo sistematicamente al taglio del tempo scuola, riducendo le annualità, il monte ore settimanale, le discipline umanistiche e il tempo pieno per i più piccoli e creando, ove possibile, ITS Academy ad uso e consumo di imprese private.

E, per comprendere la direzione ideologica e strumentale che l’Istruzione pubblica potrebbe prendere con l’Autonomia Differenziata, lasciando più spazio ai protocolli regionali, basterebbe guardare, ad esempio, a ciò che accade a Roma nell’ambito della Formazione professionale, di competenza concorrente con le Regioni. La Città Metropolitana di Roma Capitale, che gestisce in convenzione per la Regione Lazio sei Centri di Formazione, ha stipulato con Leonardo SpA, una delle maggiori industrie produttrici di armi al mondo, un accordo per avviare un percorso triennale di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) con lo scopo, secondo Roberto Cingolani, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Leonardo SpA ed ex  Ministro della transizione ecologica nel governo Draghi, e il sindaco Gualtieri di «combattere la dispersione scolastica»[4].

In realtà, tale protocollo, così come le convenzioni stipulate tra MIM e Difesa per i PCTO in caserma, obbedisce perfettamente a quella logica che l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università sta denunciando da mesi[5], cioè l’avvio di una diffusa e martellante narrazione militaristica nei settori dell’Istruzione e della Formazione professionale con lo scopo di avere manodopera da impiegare immediatamente nella produzione di armi, un obiettivo camuffato dalla propaganda di facile impiego lavorativo alla conclusione del percorso triennale. Questo accordo, come tanti altri diffusi sul territorio nazionale, prevede di dare la possibilità ai ragazzi e alle ragazze in uscita dalla scuola secondaria di I grado di accedere ad una formazione professionale finanziata principalmente da Leonardo SpA con facili sbocchi lavorativi. Si tratta, però, di ragazzi e ragazze che avrebbero bisogno di stare ancora nelle scuole pubbliche statali per sviluppare spirito critico, per crescere come soggetti dotati di senso civico, responsabilità e solidarietà e non di essere strumenti nelle mani dei complessi militar-industriali che sostengono e fomentano guerre su tutti i fronti internazionali, così come denunciano sia Antonio Mazzeo[6]in relazione alla scuola sia Michele Lancione[7] in relazione agli investimenti della Fondazione Med-Or nelle università.

La tendenza al globalismo: tra digitalizzazione e neoliberismo

All’interno di questo quadro chiaramente sviluppista, delineato anche da Patrizio Bianchi nel suo Nello specchio della scuola[8], si è fatta strada negli ultimi anni l’idea di portare l’istruzione italiana al livello europeo e internazionale, avendo poi adottato come postulato il fatto che il modello italiano sia di scarso livello. Tutto ciò ha condotto ad architettare il Piano Scuola 4.0, foraggiato dai fondi europei di Next Generation UE e, quindi, dal PNRR.

Il progetto del Piano Scuola 4.0 prevede di rivoluzionare e trasformare completamente gli ambienti scolastici e didattici per colmare il gapche i nostri studenti e le nostre studentesse avrebbero in relazione al settore digitale rispetto ai loro coetanei nel resto del mondo. A tale scopo con il PNRR è stato concesso a ciascuna scuola un budget di qualche centinaia di migliaia di euro in modo da realizzare le Next Generation Classroom e attivare ambienti innovativi digitali, oltre ai Next Generation Labs, laboratori per le professioni digitali del futuro. Il documento Piano Scuola 4.0, redatto in maniera schematica e organizzato in blocchi con abuso di lingua inglese al fine di renderlo più internazionale (Background, Framework 1 – Next Generation Classrooms, Framework 2 – Next Generation Labs, Roadmap), si richiama ad una pedagogia innovativa che prende le mosse da Maria Montessori e termina con la necessità di modulare gli spazi per renderli «flessibili, collaborativi, inclusivi e tecnologici». Nelle more dell’attuazione di questo progetto pedagogico si punta alla implementazione e al potenziamento della Didattica a Distanzae della Didattica Digitale Integrata con la trasformazione di 100.000 classi tradizionali in laboratori per le professioni digitali del futuro.

Ora, senza demonizzare l’uso e l’introduzione della tecnologia tanto nella vita quotidiana quanto nelle scuole, purché, poi, sia aggiornata e funzionante, sulla necessità di puntare in maniera così massiccia sul Digitale nella Didattica vale ciò che lo stesso Ministro Valditara comunicava il 19 dicembre 2022, quando, vietando l’uso degli smartphone e dei dispositivi elettronici a scuola per giocare, chattare e navigare sui social, egli richiamava l’attenzione su uno “stupefacente” Documento approvato dalla 7ª Commissione permanente nella seduta del 9 giugno 2021 (nel pieno della pandemia), con relatore Andrea Cangini «sull’impatto del digitale sugli studenti con particolare riferimento ai processi di apprendimento».

La vicenda sarebbe abbastanza interessante, se non fosse anche drammatica, dal momento che il documento, scritto in un linguaggio né scientifico né pedagogico né filosofico, ma decisamente espressionistico, con una sintassi disgiunta ed estremamente evocativa, asserisce, ad esempio che: «[I danni fisici, psichici e perdita di facoltà mentali essenziali] Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche». Come dicevamo, il Documentosarebbe scontato, se si limitasse a deprecare l’uso dei dispositivi elettronici e degli smartphone per le finalità ludiche e sostitutive della socialità reale, ma il punto è che nelle conclusioni si afferma che bisogna «interpretare con equilibrio e spirito critico la tendenza epocale a sopravvalutare i benefici del digitale applicato all’insegnamento» e a «incoraggiare, nelle scuole, la lettura su carta, la scrittura a mano e l’esercizio della memoria», lasciando poco spazio all’interpretazione sui pericoli del digitale per la didattica.

Certo, è quantomeno ambiguo il fatto che quel Documento, in realtà, non era che un abstract, giunto a noi pubblicamente solo nel dicembre 2022 (con la pandemia alle spalle), di un testo uscito nel marzo del 2022 a cura dello stesso relatore della commissione, Andrea Cangini, dal titolo CocaWeb. Una generazione da salvare[9]. Del resto, sarebbero anche dirimenti sia il Documento sia il libro di Cangini, se nel frattempo non avessimo svenduto la scuola con tanta enfasi alla digitalizzazione imperante mediante l’uso di tablet, tramite l’istituzione a tappeto di Scuole Apple e attraverso una quantità enorme di fondi provenienti dal PNRR, per finanziare progetti green (37%) e digitali (20%) con risorse stanziate pari a 191,5 miliardi di euro, di cui 40,32 miliardi per digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, solo 19,81 miliardi per Inclusione e coesione e 15,63 miliardi per la Salute, punto debole di tutta la pandemia. Ma il punto è che la questione, da interessante quale era, prende una piega piuttosto beffarda nel momento in cui si scopre che l’eurodeputata Eva Kaili è stata direttrice del Comitato per il futuro della scienza e della tecnologia (STOA) dal 2017 al 2022, ente preposto alla realizzazione di progetti di valutazione tecnologica. E, da quanto emerge dalle indagini internazionali, Kaili avrebbe subito pressioni da parte di lobby legate al capitalismo digitale che, attraverso il professore molisano Salvino Salvaggio, Executive Director of the VP Research, Development & Innovation (RDI) Office in Qatar Foundation (QF), arrivano fino alla ONG Elontech, fondata da Mantalena Kaili, sorella dell’eurodeputata Eva.

Ora, cos’altro ci vuole per comprendere che, ormai, anche il vecchio monito «ce lo chiede l’Europa» è già svelato come un mantra troppo territorializzato per essere fattuale? Occorrerebbe prendere atto definitivamente che il capitalismo diffuso, mentre sorveglia per indirizzare comportamenti prevedibili, mentre continua ad orientare al consumo, attraverso l’indottrinamento culturale all’innovazione tecnico-tecnologica, che avviene all’interno degli apparati istituzionali, si dilegua negli anfratti delle concentrazioni economiche deterritorializzate di ordine globale. E, tuttavia, nonostante le molteplici contraddizioni del sistema possano essere periodicamente svelate, il capitalismo neoliberista continua la sua azione indisturbata, ideologicamente sfacciata ed economicamente disinvolta, incurante delle regole nazionali e internazionali e dei destini di uomini e donne che inconsapevolmente si incamminano verso la prossima crisi, eterodiretta, alla quale le strutture statali e sovrastatali risponderanno avviando stati emergenziali finalizzati alla sua rigenerazione. In realtà, a noi appare abbastanza chiaro come il capitalismo neoliberale, insinuandosi nella scuola nella sua quadruplice veste militare, tecnologica, farmacologica ed energetica, predisponga le menti ad accettare come valori positivi la libertà, quella individualmente intesa di offrire se stessi e le proprie competenze al libero mercato, e la resilienza, quale risorsa inesauribile del singolo di far fronte alle mutevoli richieste del mercato e agli inevitabili insuccessi cui dovrà andare incontro da solo perché privato ormai di ogni tutela socio-economica. È questa maschera liberaldemocratica dell’oligarchia, parafrasando Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky[10], ad aver smarrito le vie d’accesso ad una concreta solidarietà, presupposto teorico minimo affinché ogni relazione, a partire da quelle che vediamo crescere tra i banchi di scuola, possa, al contrario, essere riassegnata all’ambito della comprensione reciproca, nella condivisione delle difficoltà, nella diatriba dialettica e non del conflitto egoistico che predispone ad ogni tipo di guerra.

Del resto, per quanto si possa propinare demagogicamente la favola del capitalismo dal «volto umano», che premiando l’intraprendenza individuale garantisce l’ascesa sociale dei meritevoli, sono sotto gli occhi di tutte e tutti gli effetti devastanti di un sistema che ha un impatto devastante sull’ambiente, sulle relazioni sociali e, ovviamente, anche su quelle internazionali. Un sistema che in virtù della quadruplice radice del principio della ragione capitalistica, insinuandosi nella società civile e nella scuola attraverso lobby che investono nei settori militare, farmacologico, digitale ed energetico, si rigenera proprio amplificando le diseguaglianze economiche, sociali e culturali e si afferma alimentando sacche di esclusione sempre maggiori a livello globale.

La tendenza al localismo: la Nuova Questione Meridionale 

Sull’altro versante, quello locale, se un tempo la Questione Meridionaleera legata a schemi quantitativi e qualitativi, che permettevano di leggere e interpretare le differenze economiche e sociali tra nord e sud del nostro Paese – direzione lungo la quale si muovevano sia meridionalisti come Francesco Saverio Nitti[11] e Gaetano Salvemini[12] sia marxisti come Antonio Gramsci[13] – oggi la prospettiva d’indagine si sposta su elementi strutturali, che permettono di comprendere i meccanismi generativi di un’arretratezza atavica nel Meridione all’interno di un quadro che è, appunto, glocale.

Per impostare correttamente, ad oggi, la Nuova Questione Meridionaleoccorrerebbe, ad esempio, cominciare dall’analisi di Antonio Russo, Istituzioni estrattive e capitalismo politico: da Questione meridionale a Questione nazionale[14]. L’articolo del 2015 prende le mosse dalla constatazione che dopo decenni di politiche statali di orientamento meridionalista per cercare di colmare il gap economico e culturale tra nord e sud e, nonostante, aggiungiamo noi, tutte le politiche comunitarie con ingenti investimenti mediante PON/PRIN FSE per “Obiettivo Competitività”, rivolti a Calabria, Campania, Sicilia e Puglia, la situazione, di fatto, ad oggi non è per niente cambiata, anzi, tutti i dati portano a credere che il gap stia solo peggiorando.

La tesi dell’autore, empiricamente sperimentabile da chi ha oppure ha avuto la possibilità di vivere tra i “due mondi”, è che la mancanza di sviluppo al sud sia qualcosa di strutturale, quasi un modello inveterato e profondamente radicato in quelle che egli ritiene essere le istituzioni politiche, che ne condizionano quasi deterministicamente il futuro dal punto di vista sociale ed economico, condannandolo all’incapacità di attivare qualsiasi forma di empowerment. Mutuando da Douglas North[15], il concetto di istituzione, legato ai «i vincoli che gli uomini hanno definito per disciplinare i loro rapporti», vale a dire regole, vincoli formali (leggi, regolamenti) e informali (codici morali, consuetudini), che agiscono come condizionamenti forti sulla storia, Russo riesce ad rinnovare le tesi di Gaetano Mosca sul potere delle élitese quelle di Althusser e Bourdieu sulla riproduzione sociale e culturale con studi recentissimi sulle istituzioni estrattive e inclusive[16],nonché con dati aggiornati. Adottando una prospettiva neo-istituzionalista, si può affermare, in sostanza, che uno Stato funzionante ed efficiente, in grado di essere facilitatore della crescita politica e dello sviluppo economico, è uno Stato capace di garantire al tempo stesso i diritti di proprietà, ma anche gli obblighi contrattuali. Si tratta di un processo lungo, che nei diversi contesti ha avuto punti di partenza ed esiti diversi, proprio in funzione dell’interazione tra vincoli formali e informali. In questo quadro il sistema istituzionale inglese, ad esempio, è stato in grado di garantire sia i diritti di proprietà, che precedentemente erano appannaggio di sgherri e vigilanza privata, sussunta poi dallo Stato sotto forma di polizia, sia gli obblighi contrattuali, affidati alla difesa delle Trade Unions, poi incardinati nello Stato sotto forma di sindacati. L’interazione positiva tra vincoli informali e vincoli formali, sbilanciata sempre più verso i secondi, senza lasciare spazio a quelli informali sul territorio, avrebbe dato agio allo sviluppo uniforme del tessuto sociale ed economico in Inghilterra.

Per quanto riguarda l’Italia vale la pena ricordare che il tentativo di Carlo Cattaneo e di Giuseppe Ferrari, da prospettive diverse, di rendere l’Italia federale fu bocciato in favore dell’opzione unitaria proprio per evitare che l’Italia potesse marciare a velocità diverse, essendoci uno squilibrio tra vincoli formali e vincoli informali soprattutto al sud. Tuttavia, l’obiettivo politico era, allora, almeno sulla carta, quello di demolire il maggior peso dei vincoli informali, strutturati all’interno di rapporti di forza gestiti dal potere economico locale, quindi localistici, particolaristici, comunitari e tendenzialmente anarchici, per far valere maggiormente quelli formali del neonato Stato italiano. Tuttavia, il motivo per cui siamo qui a parlare della Nuova Questione Meridionale, che forse è sempre la vecchia Questione Meridionale, sta nel dover constatare che, alla luce di poco più di un secolo, di fatto, quel progetto politico non si è verificato. Quel processo, in realtà, partì già azzoppato nel mentre l’Italia si stava costituendo, quando la protesta dei contadini, che speravano nella difesa dei loro obblighi contrattuali, come accadde per i colleghi inglesi, fu soffocata e i contadini furono bollati come briganti dai latifondisti, poi furono perseguitati, stanati e annichiliti dal punto di vista fisico, politico, sindacale e sociale.

Va da sé, dunque, che se l’interazione tra vincoli formali e vincoli informali è sbilanciata verso i primi, si avrà uno Stato che è in grado di assicurare unitarietà, mentre se è sbilanciato verso i secondi, vi sarà uno Stato che accoglie prerogative e spinte localistiche, di tendenza anarchica, nel senso letterale e politico del termine, cioè tendenze che non riconoscono lo Stato e le sue leggi, mentre, invece, tendono ad accettare codici di comportamento comunitari, mafiosi e familistici[17], legati a ristrette cerchie di persone. Il sud Italia, dunque, nonostante le politiche unitarie, da sempre si è mostrato tendenzialmente localistico, un territorio il cui tessuto culturale, anche a causa della perdurante ignoranza, che alimenta i NEET e l’emigrazione dei/delle giovani altamente istruiti/e, ha fatto fatica a colmare il gap geografico, la distanza fisica dal centro del potere. Il risultato è stato un processo volto a sostituire un centro lontano con un centro più vicino, in prossimità, laddove, però, la prossimità, agiva in aperta concorrenza con il potere centrale e risultava perlopiù impermeabile alle ingerenze esterne, al punto da costituirsi in cosche mafiose e clientelari: «L’uscita di forze vitali dal sistema rafforza ulteriormente la criminalità e i circuiti clientelari, riducendo la probabilità che emerga o che risulti effettivamente praticabile una strategia di protesta, capace di stimolare un’evoluzione istituzionale verso modelli più inclusivi»[18].

Ora, al di là dello sconforto di Antonio Russo sulle azioni dal basso per tentare di risolvere la Questione Meridionale, a nostro avviso le più incisive nel rompere gli assetti incancreniti delle istituzioni estrattive, magari coordinate proprio da quelle/quei giovani istruite/i che decidono di ritornare nei loro territori meridiani[19] in cerca di nuovi modelli economici più solidali e inclusivi, dopo aver sperimentato l’alienazione e l’erosione dei meccanismi dalla competizione capitalistica, ci preme mettere in evidenza che l’Autonomia Differenziata è esattamente il luogo istituzionale, cioè imposto dall’alto, mediante il quale i vincoli informali locali diventano vincoli formali e impongono in maniera definitiva in questi territori le consuetudini con leggi regionali in molti ambiti che precedentemente erano appannaggio dello Stato centrale.

Combinando le implicazioni dell’Autonomia Differenziata sul territorio meridionale in termini di ulteriore sostegno al capitalismo politicoaltamente estrattivo – ad opera delle élites politiche ed economiche che controllano stabilmente il sud del Paese per mezzo di concentrazioni clientelari-criminali – con la tendenza allo smantellamento della scuola pubblica per far posto al  modello europeo, internazionale del Piano Scuola 4.0, ma essenzialmente piegato agli interessi delle multinazionali del capitalismo neoliberale – mediante il superpotenziamento delle discipline STEM, dei PCTO e della formazione professionale – non si fa altro che generare un doppio processo, di segno uguale e contrario, di demolizione del potenziale critico e democratico, inibendo la crescita morale, intellettuale e civile di cui il sud avrebbe bisogno per emanciparsi. Da un lato, infatti, agisce il capitalismo politico localistico, che tende ad irretire la manodopera, la popolazione e l’iniziativa spontanea in «conformazioni oligopolistiche-monopolistiche dei mercati, rafforzando il potere delle reti clientelari»[20], rendendo precari sia i diritti di proprietà sia gli obblighi contrattuali con vecchi metodi disciplinari e con il controllo mafioso del territorio. Dall’altro lato, ma profondamente in sinergia con il primo, il capitalismo globale neoliberale tende a disperdere e ad ir-retire, analogamente, con l’illusione della libertà di movimento nello spazio, nelle trame dell’infocrazia e del dataismo, le menti più competitive sul piano delle competenze maturate nell’indotto del digitale, alimentando ulteriormente lo sdoppiamento elitista e l’abbandono dell’agorà politica: «Nella prospettiva dataista, a breve la democrazia partitica non avrà più ragione di esistere: essa cederà il posto all’infocrazia come post-democrazia digitale. I politici verranno sostituiti da esperti e informatici che, amministreranno la società al di là dei principi ideologici e indipendentemente dagli interessi del potere. La politica verrà dissolta in un sistema manageriale basato sui dati. Le decisioni socialmente rilevanti verranno prese attraverso i Big Data e l’Intelligenza Artificiale»[21].

Era il 2021 quando Byung-Chul Han scriveva queste riflessioni, preoccupato per la piega presa dal sopravvento della cultura digitale, dalla digitalizzazione dell’informazione, dalla mercificazione della verità, che non è certo, poi, una novità tutta post-moderna. Ci sentiamo, in conclusione, di condividere, questa preoccupazione, nella quale si adombra la fine della politica, la crisi della democrazia e l’avvento di un nuovo nichilismo, contro il quale anche la filosofia e la letteratura rimangono disarmate, private della capacità di argomentare perché non c’è nessuno disposto ad investire tempo per ascoltare o per narrare, ponendo, al tempo stesso, questioni di senso collettive e pratiche didattiche democratiche.

Un tempo si andava a scuola per ascoltare, imparare, condividere valori, scelte etiche e fare palestra di democrazia. Cosa è diventata, di preciso, la #lascuoladidomani?

 

 

 

 

 

[1] Cfr. G. Viesti, Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2023; M. Sentimenti (a cura di), Le regioni dell’egoismo. Autonomia differenziata, un pericolo per l’unità e il futuro del paese, Futura Editrice, Roma 2023; AA. VV, Tra autonomia differenziata e presidenzialismo. Per un’altra idea di Repubblica, fondata sul lavoro e la coesione sociale, Futura Editrice, Roma 2023.

[2] R. Vicini, I LEP sull’istruzione e gli aspetti di organizzazione del servizio delle istituzioni scolastiche e formative, apparso su un fascicolo di «Tuttoscuola», numero monografico Autonomia differenziata: analisi e proposte operative per l’istruzione, a cura di A. Rubinacci e G. Salerno.

[3] Cfr. art. 16, comma 1, lettera b) «l’adozione di interventi di orientamento e tutorato, anche per favorire la continuità del processo di apprendimento nei percorsi di istruzione tecnica superiore, nell’università o nell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonché per il recupero e lo sviluppo degli apprendimenti dello studente».

[4] https://www.leonardo.com/it/press-release-detail/-/detail/13-06-2023-alta-formazione-nel-settore-it-firmato-accordo-tra-citt%25C3%2580-metropolitana-di-roma-e-leonardo?f=%2Fpress-release-detail

[5] Cfr. AV.VV., La scuola laboratorio di pace, vol. 1, Storia, geopolitica e didattica di pace, Aracne, Roma 2023; AV.VV., La scuola laboratorio di pace, vol. 2, Militarismi e narrazioni belliciste, Aracne, Roma 2023.

[6] A. Mazzeo, La scuola va alla guerra. La militarizzazione dell’istruzione in Italia, Manifestolibri, Roma 2023.

[7] M. Lancione, Università e Militarizzazione. Il doppio uso della libertà di ricerca, Eris, Torino 2023.

[8] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, il Mulino, Bologna 2020.

[9] A. Cangini, Cocaweb. Una generazione da salvare, Medusa, Bologna 2022.

[10] Cfr. L. Canfora, G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Roma-Bari 2014.

[11] Cfr. F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Roma-Bari 1958.

[12] Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla Questione meridionale (1896-1955), Torino, Einaudi 1955.

[13] Cfr. A. Gramsci, La Questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 2005.

[14] A. Russo, Istituzioni estrattive e capitalismo politico: da Questione meridionale a Questione nazionale, in «Rivista economica del Mezzogiorno», a. XXIX, 2015, n. 1-2, il Mulino, Bologna, pp. 263-302.

[15] D. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, il Mulino, Bologna 2002

[16] Cfr. D. Acemoglu, J.A. Robinson, Perché le Nazioni falliscono, Il Saggiatore, Milano 2013.

[17] Cfr. E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna 2010.

[18] A. Russo, Istituzioni estrattive e capitalismo politico: da Questione meridionale a Questione nazionale, cit., p. 286.

[19] Cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2010.

[20] A. Russo, Istituzioni estrattive e capitalismo politico: da Questione meridionale a Questione nazionale, cit., p. 284.

[21] B.C. Han, Infocrazia, Einaudi, Torino 2023, pp. 51-52.

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