Invalsi 2021, la Scuola peggiora. Azzardo una diagnosi

Gli studenti italiani peggiorano. I risultati delle prove “Invalsi” fatte quest’anno ci dicono senza giri di parole che alle scuole medie e alle superiori i ragazzi non hanno raggiunto un livello adeguato in italiano e matematica. Anzi rispetto agli anni precedenti sono aumentati di 5-6 punti coloro che alla secondaria di primo grado non hanno brillato e di 9 punti quelli delle superiori che non hanno raggiunto il traguardo posto dalle indicazioni nazionali.

A perdere i pezzi sono chiaramente gli alunni più svantaggiati per i contesti socio economici, ma tra questi, a fare passi indietro, sono i ragazzi che ce l’avevano messa tutta. C’è poi un dato, forse il più importante, che ci viene consegnato: 40mila ragazzi delle superiori finiscono il loro corsi di studi senza avere le minime competenze per inserirsi nel mondo del lavoro. Sono bruciati. “Dispersi impliciti” (così li ha chiamati l’Invalsi) che si aggiungono a quelli espliciti per arrivare a oltre il 20% di giovani persi per strada.

Fatta l’analisi, l’Invalsi ha alzato le mani come ogni anno. Il suo compito è misurare la febbre. Stop. Anzi nessuno dell’Istituto presieduto da Anna Maria Ajello (alla quale va il merito di aver cambiato il volto all’Invalsi e di averla fatta digerire un po’ di più) ha dato la colpa alla didattica a distanza o agli insegnanti. Stamattina alla presentazione c’era anche il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi che ha riparlato di scuola dell’affetto, ha elencato tutto quello che questo Governo sta facendo ma non ha azzardato una diagnosi. Ci provo io, con i miei limiti e senza la presunzione che sia la verità.

Prima osservazione: la didattica a distanza è stata uno strumento necessario e l’unico possibile. È chiaro a tutti che la scuola in presenza sviluppa un clima relazionale che sta alla base dell’apprendimento. La relazione tra compagni, il rapporto tra discente e docente, la condivisione non possono essere sostituite dall’online. Ma una domanda va fatta: come si è fatta lezione in Dad? Un’indagine dei giorni scorsi della fondazione Agnelli ci ha confermato che la maggior parte dei docenti ha replicato quanto fa in classe, ovvero la lezione frontale.

Ecco allora il nodo della questione: la comunicazione. Un docente deve, in primis, saper parlare, saper comunicare i contenuti, le esperienze. Se lo sa fare in classe, lo fa anche davanti ad un personal computer. Un esempio: se sono stato nei campi di concentramento saprò raccontare quanto ho visto e imparato sia davanti ad uno schermo sia in presenza. Non è un caso che la sperimentazione fatta da Rai Gulp con il programma “La Banda dei fuori classe” ha funzionato e ha avuto successo. Anche in quel caso c’è uno schermo che separa, ma i bambini e i ragazzi hanno seguito. Ergo, va urgentemente insegnato ai docenti a comunicare e ad abbandonare la lezione frontale.

Seconda osservazione: il nostro Paese non era e non è all’altezza nell’usare l’online per insegnare. Qualche anno fa durante un viaggio in Uruguay ho saputo che tutti gli studenti erano dotati di tablet e connessione. L’idea era stata di José Alberto Mujica che aveva messo in piedi un piano scuola straordinario. In Italia, alla vigilia della pandemia, non tutti i ragazzi e bambini erano dotati di un tablet. Allo scoccare della Dad i presidi li hanno comprati in fretta e furia ma consegnati solo in comodato. A scuola il tablet sul banco non c’è nella maggior parte delle classi. C’è ancora l’aula d’informatica con computer obsoleti e non sufficienti a classi pollaio. A questo si aggiunge il tema connessioni inesistenti in molte zone d’Italia. Ergo, va urgentemente fatto un piano d’investimenti per dotare ogni alunno di un tablet o pc portatile, e chiaramente va data la connessione a tutti.

Terza osservazione: sono peggiorati coloro che sono più poveri. E tra questi i migliori. È un dato scontato, persino banale. Chi insegna lo sa. La scuola ha fatto quello che era possibile. Quando Giovanni o Fatima non si presentavano al pc telefonava ai genitori, mandava un messaggio WhatsApp o semmai una bella letterina firmata dal signor preside. Stop.

Coscienze pulite? Alla luce di questi risultati direi di no. È stato uno degli errori dell’ex ministra Lucia Azzolina e dell’allora coordinatore della task force Patrizio Bianchi (oggi ministro). Avevamo bisogno di una squadra di maestri di strada che andasse a casa di questi studenti per parlare con loro, per capire, per dare motivazioni. Bardati come gli infermieri, protetti a più non posso; ma di quello avevamo bisogno. L’avevo detto anche alla ministra, ma si sa, noi maestrini non siamo molto ascoltati.

Non è mai troppo tardi. Serve ora urgentemente una squadra di maestri e professori di strada che in classe, durante l’anno (e non d’estate come vagheggia qualcuno) si occupi di chi è rimasto indietro, di chi deve recuperare.

Conclusioni. Di fronte a questo scenario mi auguro che questi dati non servano a fare notizia per un giorno per poi finire nei cassetti. Servono, invece, a mio avviso, due cose che suggerisco al ministro Bianchi: una commissione Invalsi composta da dirigenti scolastici, maestri di scuola primaria, professori della secondaria di primo e secondo grado che leggano a livello nazionali i dati proponendo soluzioni. E poi è necessario che i presidi e i collegi docenti non si limitino, come hanno fatto fino ad oggi, a leggere i propri numeri per poi rimetterli nel cassetto. Ogni scuola, invece, dovrebbe attuare un piano strategico Invalsi per immaginare e creare percorsi che possano nella pratica provare a recuperare quanto si è perso.

 

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