Estate a scuola: così la nascita dei ‘servizi sociali’ ha allontanato i meno abbienti dalle vacanze
da il fatto quotidiano
Come al solito, i cittadini si sono trovati a pagare due volte lo stesso servizio: la prima attraverso la tassazione ordinaria, la seconda con la fregatura del “servizio a domanda individuale”
Venerdì 6 giugno sono finite le lezioni: bambini, tutti in vacanza, che bello! Lunedì 9 giugno si ricomincia con la scuola estiva, spesso nelle stesse aule appena lasciate, trasformate sommariamente in baby-parking, spesso animati da ragazzi volenterosi e sottopagati. Da tempo i Comuni non se ne occupano più direttamente organizzando e gestendo il servizio; più semplice dire che, invece che “servizi sociali”, sono “servizi a domanda individuale” da appaltare al costo più basso e soprattutto da proporre solo a chi ne ha bisogno. Non è sempre stato così.
Finché il tema dell’educazione e dell’assistenza dei bambini e dei giovani ha prodotto “servizi sociali”, erano le istituzioni a farsi carico della loro costruzione, del mantenimento e del reperimento delle risorse economiche perché funzionassero al meglio. L’accesso – al di fuori dell’obbligo scolastico – era garantito a tutti perché rientrava fra gli obblighi dell’istituzione nei confronti dei loro cittadini. Questo fino al 1983, quando un decreto del Ministero dell’Interno, nell’ambito del riordino delle competenze e dei bilanci degli Enti Locali, individuò i servizi a domanda individuale separandoli dai servizi obbligatori e stabilendo che l’erogazione dei primi comportasse il pagamento di una tariffa e che il criterio della gestione dei servizi a domanda individuale fosse quello del pareggio fra costi e ricavi, questi ultimi prodotti dalle tariffe pagate, in tutto o in parte, dagli utenti: mense scolastiche, asili nido, colonie di vacanza, trasporti scolastici, servizi sportivi (perfino i servizi cimiteriali!), smisero di essere un diritto, diventarono “a pagamento”.
Per i poveri o i meno abbienti intervenivano i servizi sociali a compensare la differenza fra il costo del servizio e l’esborso del singolo. I comuni potevano decidere di destinare quote delle loro risorse per favorire la partecipazione e il sostegno alle iniziative intervenendo sui costi, oppure no. Da sempre questi servizi sono preziosi per chi li usa, assai meno per gli altri. La stessa eccitazione dell’individualismo che oggi si sfoga con lo stesso stile sulla sanità.
I servizi all’infanzia e per i giovani rimasero un fiore all’occhiello per poche realtà, mentre la maggior parte del paese si dedicava al progressivo smantellamento dei servizi propri a favore di appalti, concessioni e convenzioni, quasi sempre al massimo ribasso e alla minima qualità, che allontanavano sia gli utenti più in difficoltà sia quelli che potevano permettersi soluzioni più soddisfacenti. In ossequio al principio del pareggio di bilancio del servizio a domanda individuale, i costi dell’asilo nido sono alle stelle, ogni tanto oggetto di attenzione e di quintali di retorica sulle difficoltà per le donne di conciliare professione e famiglia; l’attività sportiva per giovani e adulti è stata trasformata in un lusso a volte insostenibile perfino per le famiglie con due redditi: la vacanza in colonia o campeggio per bambini e ragazzi è stata trasformate in esperienza chic per la fascia alta del ceto medio.
Qualche esempio: a Parigi un giorno in piscina costa 2,8€ (un corso di nuoto 4€ a lezione), a Torino ce ne vogliono 5,80, nei festivi 8,80 solo per l’ingresso. A Roma 9€ l’ingresso, 135€ per tre mesi di corso una volta la settimana (10€ circa ogni lezione). Una settimana di “scuola estiva” nelle aule comunali (pranzo compreso): 120/140€, campeggi per ragazzi/e tariffe variabili fra i 500 e i 700€; corsi fi formazione sportiva (in locali comunali) di tennis, volley e altro 10€ a lezione. E via discorrendo.