L’inclusione a scuola e la retorica dietro le Nuove indicazioni del ministero

di Luca Fabris, Domani

La cultura delle differenze e la scuola delegittimata.

 

Rispetto alla bozza che ha fatto discutere associazioni e movimenti, nella nuova stesura dell’11 giugno troviamo cambiamenti importanti: da un lato il focus dell’inclusione viene allargato dalla disabilità all’intercultura e all’insegnamento dell’italiano come seconda lingua e delle lingue delle minoranze, a partire dalla lingua dei segni; dall’altro si riduce la personalizzazione della didattica alla “realizzazione dei propri talenti” e vengono eliminati concetti chiave dei quali chiunque si occupi di inclusione conosce l’importanza

Il capitolo “scuola che sa essere inclusiva” delle Nuove indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e scuole del primo ciclo di istruzione pubblicate l’11 giugno 2025 è scritto con attenzione, non a caso la presidente della commissione per la loro stesura è una docente di pedagogia speciale.

Rispetto alla bozza delle Nuove indicazioni che ha fatto discutere le molte associazioni scientifiche e i movimenti che si stanno mobilitando contro il documento troviamo dei cambiamenti importanti: da un lato in extremis il focus dell’inclusione viene giustamente allargato dalla disabilità all’intercultura e all’insegnamento dell’italiano come seconda lingua e delle lingue delle minoranze, a partire dalla lingua dei segni; dall’altro si riduce la personalizzazione della didattica alla “realizzazione dei propri talenti” e vengono eliminati concetti chiave dei quali chiunque si occupi di inclusione conosce l’importanza: l’inclusione come “cultura organizzativa”, l’importanza del “decostruire discorsi e contesti”, il “peso che hanno i linguaggi del corpo” e “la matericità dell’organizzazione”.

Per tutti questi motivi la parte sull’inclusione delle Nuove indicazioni è quella che con più urgenza occorre riportare alla pratica, provando a smascherare gli aspetti più retorici.

SCUOLA DELEGITTIMATA

Le parole “inclusione/inclusivo/inclusiva” appaiono 39 volte nel documento, una ogni tre pagine, mentre l’insegnante di sostegno non compare mai. Questo avviene perché nessuno può dirsi contro l’“inclusione”, ma se si vuole guardare alla funzione dell’insegnante per le attività di sostegno e alla sua professionalità, a partire ad esempio della compilazione del Piano educativo individualizzato (PEI), subito affiorano questioni polarizzanti che stonano con la difesa a spada tratta del sistema dell’inclusione proposta dagli autori e dalle autrici.

Nel frattempo infatti vengono promossi i brevi (e più economici dei già costosi TFA) corsi di specializzazione INDIRE per abilitare gli insegnanti di sostegno con tre anni di servizio nell’ambito di una delegittimazione dell’Università pubblica e di un suo pesante definanziamento attraverso la riforma Bernini.

In aggiunta, si propone di delegare alle famiglie la conferma del docente di sostegno con contratto a tempo determinato già assegnato allo studente nell’anno precedente, di nuovo delegittimando la scuola e dando una falsa risposta alla precarietà degli insegnanti e alla conseguente alta mobilità che li mette in difficoltà tra spostamenti e costruzione di nuove relazioni professionali.

CULTURA DELLE DIFFERENZE

Continuando a “decostruire i discorsi”, l’altra firma più in vista del documento, il professor Ernesto Galli Della Loggia, solo lo scorso gennaio lamentava che in ossequio al “mito dell’inclusione” in classe «convivono regolarmente ragazzi disabili gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di nozioni sulla loro disabilità), studenti con BES (…) e studenti stranieri che non spiccicano una parola di italiano», chiosando: «Il risultato lo conosciamo».

A destare più allarme non è lo scalpore di queste uscite, ma l’eco offerta al riemergente discorso secondo cui gli studenti con disabilità rallentano il normale svolgimento della lezione (quasi sempre statica e frontale), quando invece come mostra una corposa letteratura la presenza di studenti con disabilità porta alla costruzione di una cultura delle differenze già da bambini e bambine e a un abbassamento non degli apprendimenti, ma della performatività in classe, anche legata alla valutazione, e questo si può dire che avviene, anche se non ci sono ancora molte ricerche che ne parlano, anche nei pochi licei che accolgono questi studenti.

L’INCLUSIONE SCOLASTICA DEVE FORMARE ANCHE AL DOPO

Il documento poi cita le riforme più importanti sull’inclusione scolastica, a partire dalla legge 517 del 1977 per il superamento delle classi differenziali e delle scuole speciali. Le definisce riforme “illuminate”, per le quali l’Italia è invidiata all’estero, nuovamente in uno slancio di orgoglio nazionale, ma nelle Indicazioni viene lasciato sullo sfondo che quelle riforme sono l’esito di movimenti di genitori e insegnanti impegnati nella costruzione di una scuola democratica e aperta negli stessi anni dei movimenti per la deistituzionalizzazione e l’apertura dei manicomi, conquiste che non avvengono una volta per tutte.

Infine, nonostante nel nuovo documento si faccia riferimento esplicito alla Classificazione internazionale del Funzionamento della disabilità e della salute (ICF) sviluppato dall’Oms, aggiunta da accogliere con favore, c’è un omesso importante: l’inclusione scolastica deve formare anche al dopo, non creare un’isola felice in una scuola fuori dal mondo.

In tal senso, suggeriscono i Disability Studies, bisogna formare tutte le persone ai diritti delle persone con disabilità, magari leggendo nelle ore di educazione civica testi come il manifesto dell’UPIAS (l’organizzazione di persone con disabilità che in Inghilterra nel 1976 scrisse un manifesto contro la segregazione e che ha contribuito a dare forma al modello sociale della disabilità) perché la disabilitazione è una responsabilità di tutti, la agiamo tutti, e qua, fuori di retorica, c’è il contributo che possiamo dare anche noi da attivisti e professionisti non disabili.

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