Ad Ariosto, Parini e Dante non possiamo rinunciare
, il Sussidiario
No, l’insegnamento della letteratura a scuola non è vincolato a schemi rigidi. Semmai è l’opposto. Ecco perché i classici non si possono abbandonare (nemmeno nei professionali)
L’intervento di Marco Ricucci ha riproposto la vexata quaestio dell’insegnamento della letteratura negli istituti tecnici e professionali, frequentati da alunni segnati da carenze così gravi nelle competenze linguistiche di base da rendere insensato, a suo parere, lo studio della letteratura italiana, così com’è attualmente concepito, imperniato sulla storia della letteratura.
L’autore ha ragione quando sottolinea che ancora oggi si confonde la letteraturacon la storia della letteratura, residuo idealistico duro a morire. Non mi sembra però che le Linee guida e le Indicazioni nazionali per questo tipo di scuole si muovano in questa direzione: si parla di “obiettivi di apprendimento”, di “sviluppo delle competenze”, attraverso opportuni laboratori linguistico-comunicativi, che permettano l’affronto di “opere e autori significativi della tradizione letteraria e culturale italiana”.
Le indicazioni ministeriali sono a maglie talmente larghe da permettere ogni tipo di percorso didattico. Nella mia esperienza – che si riferisce però ai licei – mi è accaduto piuttosto il contrario di quanto lamentato da Ricucci, con programmazioni all’insegna di una inarrestabile deregulation.
Mi è capitato di sentire colleghi che nei dipartimenti sostenevano di aver saltato il Purgatorio, “perché dovevano seguire il PCTO”, o di non aver trattato Tasso, in quanto hanno preferito dedicare il loro tempo al tema del femminicidio o del patriarcato. Nessuno tra i colleghi osava fiatare: il mito della libertà di insegnamento è intoccabile, compresa la libertà di tirare su allievi perfettamente ignoranti.
Mi viene da pensare che la disistima che abbiamo verso il nostro Paese si traduce spesso nella sottovalutazione della tradizione letteraria ed artistica che lo caratterizza: da dove viene la nostra identità se non da poeti come san Francesco, Dante, Petrarca e via elencando, che hanno costruito una coscienza nazionale ben prima che essa venisse politicamente raggiunta nel 1861? Non dobbiamo proporre questo, nei modi didatticamente più adeguati, ai nostri giovani, che siano nati in Italia o che vi siano giunti?
In questo senso i cosiddetti classici – ma forse sarebbe bene mettere al bando questa ingombrante definizione – possono funzionare ancora benissimo e tante esperienze in Italia lo testimoniano, come le mostre sulla Commedia dantesca curate da Franco Nembrini con le splendide illustrazioni di Gabriele Dell’Otto. In tante città italiane gli studenti, anche provenienti da istituti tecnici e professionali, sono parte attiva nei percorsi didattici, facendo da guide per i loro compagni o per chiunque visiti le mostre: coinvolti come protagonisti nel loro processo educativo, tanti di loro hanno finito per innamorarsi dei versi di Dante.
Evitando di insistere su questioni storiche e letterarie troppo minute, con una sapiente presentazione dei testi, possiamo proporre con fiducia autori e testi che amiamo. Chi mai ha trovato parole così precise come Petrarca per cantare l’amore e i suoi tormenti? Leggendo nella Gerusalemme liberata la fuga di Erminia tra i pastori, incontriamo lo stesso nostro desiderio di pace che segna questo tempo inquieto.
Inoltrandoci nelle stanze del palazzo di Atlante dell’Orlando furioso, riconosciamo le insidie e gli inganni del potere che ci allontanano dalla verità di noi stessi; ritroviamo l’indignazione per una punizione inflitta ingiustamente e motivata dalla disuguaglianza di classe nella “vergine cuccia” di Parini.
I grandi poeti possono insegnare ai giovani le parole giuste per conoscere e per esprimere le loro emozioni, e non c’è in questo momento azione educativa più necessaria.