La palestra della vita ha bisogno di maestri a scuola

di Ivano Dionigi, Avvenire

Rende deboli i saperi anziché forti gli allievi. Per questo i professori non vanno declassati e resi burocrati: un saggio di Dionigi

«Nel nostro Stato, la carica di gran lunga più importante sarà questa: il ministro dell’istruzione». Così Platone. Ivano Dionigi, filologo classico, già docente rettore Alma Mater di Bologna, parte da un altro presupposto nel suo

La scuola la fanno i maestri, non i ministri
(Laterza, pagine 138, euro 15,00; in libreria da venerdì), di cui anticipiamo un brano. Già dal titolo, che riprende una frase del grecista Manara Valgimigli. Per tanti ciò ha significato cambiare le sorti della loro vita perché è solo nel rapporto tra maestro e allievi che si sprigiona il campo di energia dell’educazione. Un’utopia? Una necessità vitale.

Magister: parola latina emblematicamente carica di senso. Composta dal prefisso latino magis (“più”, che indica superiorità qualitativa) e dal suffisso greco -teros (che indica comparazione), significa il superiore, colui che sa di più e conta di più, e che si mette a confronto e in relazione con gli altri.

Figura propria della lingua religiosa, oltre che giuridica e politica, il Magister designava il celebrante principale, assistito dal Minister (da minuse -teros), il celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi abbiamo sostituito il rispetto per i maestri con l’ossequio per i ministri.

Parola nobile, evocativa, emozionante, sideralmente lontana dal surrogato influencer: il maestro di danza, di musica, di sport, di studi, di vita spirituale, di vita; i tanti maestri senza cattedra. Rabbi, Maestro, era chiamato Gesù dagli Apostoli. Per tanti ha deciso le sorti della vita.

«La scuola», ha sentenziato Manara Valgimigli, «la fanno i maestri, non i ministri». Penso ai tanti maestri e alle tante maestre che insegnano ai nostri bambini e alle nostre bambine l’arte del leggere e dello scrivere: nelle periferie delle grandi città, negli sperduti paesi dell’Appennino, negli ospedali al capezzale dei piccoli ricoverati.
Fanno il mestiere più bello, più importante, più misconosciuto del mondo. […]

Quale scuola? Non certo la scuola della didattica a distanza, la prima vittima della pandemia, posposta alle messe in piega delle parrucchiere, con i ragazzi addomesticati e oscillanti tra il pigiama, il divano e lo smartphone, spettatori e non protagonisti dell’apocalisse.
E neppure quella prima della pandemia, improntata alla separazione sia dei saperi sia delle classi sociali. Immagino una scuola fulcro della formazione e stella polare del Paese.

Una scuola aperta ventiquattro ore: lezioni, compiti, musica, teatro, sport, otium e negotium, cella e pulpito; perché la scuola non è né dei professori né delle famiglie, ma degli studenti. Una scuola dove coabitino informatica e storia dell’arte, inglese e filosofia, scienze applicate e latino, storia delle religioni e matematica, educazione civica ed educazione alimentare, ecologia e diritto, italiano ed economia.
Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre: et et, non aut aut deve essere la misura della scuola.

Perché ciò che potrebbe essere un’aggiunta diviene un’alternativa? Una scuola consapevole che, di fronte alle nuove sfide delle scienze e alla pervasività delle tecnologie digitali, può trovare negli studia humanitatisun’alleanza naturale e necessaria.

Una scuola vissuta come forma e forza di giustizia sociale, a cominciare dai territori svantaggiati del Sud, che prevenga dispersioni e fallimenti precoci. Il primo e vero antidoto alla malavita.

Una scuola dove gli studenti incontrino e interroghino i responsabili della vita economica civile e politica: scuola più scuola, questa è la vera alternanza.

Una scuola che veda nei suoi insegnanti e studenti gli interlocutori privilegiati e i consulenti del sindaco e del Consiglio comunale; e anche degli architetti che progettano gli edifici scolastici.

Una scuola intesa come palestra dei fondamentali del sapere che, al riparo da pedagogie facilitatrici, non si rassegni, per una malintesa idea di democrazia e di egualitarismo, a rendere deboli i saperi anziché forti gli allievi. Una scuola dove i professori non siano declassati a burocrati e umiliati a capoclasse ma riconosciuti economicamente e socialmente, per poter professare ( profiteri) a pieno titolo l’affascinare ( delectare),l’insegnare ( docere), il mobilitare le coscienze (movere), come aruspici di quella cosa tremenda e stupenda che è la vita dei giovani: che Erasmo considerava «il bene più prezioso della città» e che noi abbiamo degradato a “capitale umano”. I

l giorno in cui il presidente del Consiglio terrà la delega della Scuola, vorrà dire che questo Paese ha deciso di prendersi sul serio, di avere cittadini più consapevoli e di formare una classe dirigente più responsabile. Allora ne guadagnerà non solo il benessere individuale ma anche il Pil. […]

Nella mia non breve esperienza di docente ho tenuto a mente una domanda centrale e ineludibile che Montaigne formulò in modo impareggiabile: come tutelarci dal diventare un giorno «scienziati senza conoscenza, magistrati senza giurisdizione e comici senza commedia»?
Detto con parole più attuali: nell’era del monoteismo tecnologico, come formare persone egregie e non gregarie, vale a dire intelligenze libere e capaci di porre limiti e ribellarsi a macchine più o meno intelligenti?

Circa vent’anni fa, un ministro della Repubblica intendeva riformare la scuola e il mondo della formazione sulla base di Inglese, Internet, Impresa: aggiornamento mercantile del non meno noto e allarmante Inglese, Internet, Novecento.
Quelle tre parole d’ordine non solo non hanno risolto i problemi, ma si sono rivelate essere, almeno in parte, addirittura il problema, perché adottavano unicamente le categorie dei mezzi, dello spazio, del presente.

Ritengo che le nuove istanze e i nuovi squilibri vadano iscritti nell’orizzonte dei fini, del tempo, dei giorni a venire, e che a tale scopo debba essere interpellata un’altra triade, marcata anch’essa da una triplice i: Interrogare, Intelligere, Invenire. Tre voci che andrebbero scolpite all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni formative.

Non vedo altro luogo, altra istituzione, al di fuori della scuola, in cui i ragazzi possano attrezzarsi per interrogare, comprendere e scoprire sé stessi e il mondo.

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